venerdì 30 dicembre 2016

QUANDO DICO VOLA

Quando dico "vola",
non sprono alla fuga:
sprono all'atterraggio.

Romina Ciuffa, 30 dicembre 2016


PSICOLOGIA: IL CONFLITTO INOPPUGNABILE DENTRO DI NOI, DUBBIO AMLETICO O NEVROSI?

di ROMINA CIUFFA, psicologa. Il conflitto, quello che tutti abbiamo dentro. Niente di nuovo per nessuno di noi: il dubbio, lo stress decisionale, spesso l’angoscia. In psicologia il conflitto consiste nella presenza di assetti motivazionali contrastanti rispetto ad una meta. Di «oggetto-meta» aveva parlato il sociocognitivista Albert Bandura nel definire l’autoefficacia. Il gestaltista Kurt Lewin, fautore della teoria del campo, dà rilievo all’interazione tra persone e ambiente per studiare il comportamento - nella relazione C=f(P,A) ossia il comportamento come funzione di persona ed ambiente - analizza le valenze che possono essere date ad un determinato oggetto meta o a più di essi. Lewin definisce il conflitto come una competizione tra istanze affettive ed avversive, distingue tra conflitti adienti ed evitanti, o doppiamente adienti e doppiamente evitanti, a seconda che si presentino due tendenze appetitive (avvicinamento-avvicinamento), due avversative (evitamento-evitamento), una appetitiva e una avversiva (avvicinamento-evitamento), ossia due più tendenze che siano in sé sia appetitive che avversative, o più di due (doppio avvicinamento e doppio evitamento): è questo il caso delle mete ambivalenti.

In tutte queste ipotesi, sempre presenti e in modo molto complesso ed evidente nella realtà quotidiana, il soggetto tenderà - quando non a bloccarsi (è l’esempio dell’asino di Buridano) - a risolvere in un senso o nell’altro, quindi a predisporsi in modo da esaltare l’obiettivo scelto e denigrare quello trascurato per non tornare in conflitto, dunque semplificando solo determinati aspetti dell’oggetto-meta e mutando la propria posizione cognitiva ed emotiva. Ciò non avviene sempre, e il soggetto può tanto ritirarsi dalla decisione quanto oscillare nevroticamente tra le varie ipotesi. 

Fu il russo Ivan Pavlov, lo stesso che studiò le reazioni del cane in ambito comportamentista, a compiere studi sul conflitto eccitazione-inibizione negli animali in una situazione di nevrosi sperimentale indotta, in cui verificò il presentarsi di situazioni di turbe generali di ansia e disturbi alimentari, turbe nei rapporti sociali, manifestazioni psicosomatiche. Nell’uomo tali reazioni sono molto più evidenti, in un repertorio più ampio di sintomatologie. 

In ambito psicanalitico, il conflitto riveste un’importanza primaria: Sigmund Freud lo colloca tra istinto di vita e istinto di morte (Eros e Thanatos), tra Es e Super Io, tra principio di realtà e principio di piacere, e contrappone il conflitto manifesto ad un conflitto latente. Gli elementi manifesti, se presenti, svolgono una funzione di copertura dei conflitti latenti, con implicazioni di rilievo che includono lo sviluppo di psicopatologie anche molto gravi, cui Freud risponde con l’interpretazione dei sogni, le associazioni libere, il transfer, l’ipnosi, tecniche utili a far emergere le cause inconsce che il soggetto soffoca con meccanismi di difesa a partire dal più dirompente, quello della rimozione, non sufficiente ad eliminare il conflitto se non a livello conscio. 

Tra i cognitivisti, l’americano Leon Festinger si è espresso elaborando il concetto di «dissonanza cognitiva», quello stato generato dall’incoerenza tra due credenze od opinioni contemporaneamente esplicitate che si trovano a contrastare fra loro. Distinguendo dissonanze cognitive per incoerenza logica, per tendenze comportamentali del passato, per costumi culturali rispetto al contesto di riferimento, sostiene che un conflitto possa risolversi in tre modi: la modifica del comportamento, la modifica dell’atteggiamento o la modifica dell’ambiente. È il caso di colui che, disprezzando i ladri, acquisti un prodotto ad un prezzo tanto basso da non poter non pensare che esso provenga da atto illecito. Tale conflitto può risolversi attraverso una modifica cognitiva della credenza: smettere di disprezzare i ladri, o intervenendo sul comportamento: non comprare, in questo esempio essendo difficile mutare la situazione ambientale. È anche il caso del consumo di sigarette: colui che le assume sa che danneggiano la salute, dunque può smettere di fumare ovvero proseguire dando peso alle probabilità (solitamente valutate con euristiche alla Kahneman - routinarie, molto efficienti, poco consapevoli, automatiche e tendenti alla semplificazione - e non con algoritmi complessi come la formula di Bayes, anche detta teorema della probabilità delle cause) che fumare non sempre uccide, e che si tratta di un comportamento che molti hanno fino a tarda età senza riscontrare problemi incisivi, accettandone così anche il rischio. Festinger ricorda Fedro, che conclude la favola della volpe e dell’uva con un aggiustamento cognitivo: «Tanto era acerba». Importanti i suoi esperimenti su comportamenti compiacenti e ricompensatori.


È il canadese Daniel Ellis Berlyne a contraddire gli altri studiosi quando parla di una marcata motivazione al conflitto che spinge l’uomo in tale direzione. Le proprietà collative degli stimoli, ossia la presenza di elementi di novità ed incongruenza con le precedenti conoscenze determinanti per l’attività cognitiva, attengono al confronto e possono essere messe in relazione con l’incertezza: un confronto con situazioni nuove e complesse porta ad un innalzamento dell’arousal, il livello di attivazione dell’organismo, e conduce all’esperienza che Berlyne ha chiamato «conflitto concettuale», che può aumentare eccessivamente l’arousal stesso. Con l’esplorazione specifica è possibile ridurre tale arousal, mentre effetto contrario si ottiene con l’esplorazione diversiva. 

La teoria di Berlyne a proposito della relazione tra le emozioni e i processi cognitivi ripropone un’idea di Wilhelm Wundt, espressa con la curva di Wundt-Berlyne la quale riassume le relazioni che intercorrono tra arousal e stato emotivo connesso a una data situazione, inteso come valore edonico della situazione dipendente dall’arousal: il valore positivo o negativo delle emozioni è funzione che inizialmente aumenta, quindi diminuisce con l’aumentare dell’arousal. 

Il conflitto si manifesta a livello intrapsichico sì, ma anche interpersonale, come nel caso di opinioni contrarie, e spesso a suscitarlo non è un oggetto ma un modello di comportamento. L’appartenenza a diverse categorie genera un conflitto tra ruoli, che viene esaltato dalle diverse regole, spesso incompatibili, da rispettare. Esempio utile è quello tra «testimone» e «amico» nel caso di incidente stradale (il ruolo «amico» mente per avvantaggiare il conoscente, il ruolo «testimone» dichiara il vero ma avvantaggia così lo sconosciuto che è stato urtato): alcuni hanno risposto al quesito conflittuale in termini di ruolo pubblico, altri di ruolo privato. 

Un conflitto denso di significati è quello intraevolutivo, nel passaggio da un’età all’altra (peraltro molto ben evidenziato da Erik Erikson), legato alle trasformazioni corporee e alla maturazione cognitiva. A tale conflitto è possibile rispondere con una terapia psicologica affinché il passaggio avvenga armonicamente, sia nei bambini, che passano attraverso «età critiche» più sensibili (per Erikson sperimentando conflitti fiducia-sfiducia, autonomia-vergogna e dubbio, iniziativa-senso di colpa, industriosità-inferiorità), sia negli adolescenti, divisi tra bisogno di contrapporsi alla famiglia con un proprio senso del sé e difficoltà ad accettare la crescita e il distacco dalle figure di accudimento (per il medesimo psicologo dello sviluppo, in tale fase il conflitto è tra identità e diffusione), sia negli adulti (in bilico tra intimità e isolamento contro generatività, poi tra stagnazione e autoassorbimento), sia negli anziani (nel conflitto eriksoniano tra integrità dell’Io e disperazione). 

Nell’area clinica l’applicazione riguarda il trattamento delle nevrosi, per cui diventa centrale favorire un processo di consapevolezza ed elaborazione dei termini del conflitto nevrotico. È utile dare una «narrazione», far emergere nel colloquio gli elementi di attrazione e repulsione e favorire un processo decisionale adeguato. L’elemento terapeutico nei colloqui clinici è sempre presente anche quando non si sia stabilito alcun contratto terapeutico ed il clinico non si sia posto esplicitamente nel ruolo di psicoterapeuta. Oltre al colloquio sono utili metodi psicometrici, quali test proiettivi (Rorschach e Tat sono i più utilizzati) che consentono di estrapolare i dati presenti inconsciamente, e test grafici. 

Anche i profili di Rubin possono rivelare l’entità di un conflitto, prestandosi a due possibilità di lettura: il soggetto, fissando a lungo le figure, alterna le due percezioni conflittuali sempre più velocemente finché l’immagine non si scomotizza (la scomotizzazione è quel meccanismo di difesa psicotico di negazione inconscia con cui il soggetto occulta o esclude dall’ambito della coscienza o memoria un ricordo penoso, ma anche intellettivamente inteso dalla psicologia cognitiva, la creazione di uno stereotipo ove si eviti di prestare attenzione ad alcuni dati disponibili in un certo contesto, dunque risolvendosi in una reazione alla dissonanza cognitiva attraverso fissazione cognitiva). I profili di Rubin sono conosciuti nell’illusione ottica della figura sfondo-vaso, tipica di conflitto.

Molti sono gli studi compiuti sul conflitto intrapsichico, quel dubbio «amletico» che, se seviziato, non accompagnato, non sorretto, non cognitivizzato, conduce ad una sofferenza talvolta inoppugnabile. Alcuni individui sono più propensi a nuotare nel conflitto, a bloccarsi, con o senza nevrosi conclamata. C’è chi dice che il segno zodiacale dei Gemelli ne sia il più afflitto. Altri sono più orientati ad agire da boia: un colpo secco, e non ci si pensi più (il segno del Toro, nell’esempio astrologico). Non sia però sottovalutato il problema: chi vive nel conflitto finisce per cronicizzarne i sintomi e le conseguenze sono devastanti. È collegato il tema della frustrazione, che approfondirò in un prossimo articolo. Romina Ciuffa

giovedì 22 dicembre 2016

NON CHE TRASPARIRE

Non che trasparire
nasconda le cose, piuttosto
le amplifica e rende curiose
idee evanescenti di un senso
d'amore - quel forte rancore
dell'essersi resi invisibili
quando
si amava -
ed intanto
riflette su un vetro
l'immagine amata
lasciata nel retrobottega
del "dopo", del "poi ci si vede",
del "sei tu la sola
che amo ma". Gola,
la sola che avrà questo nodo.
Parola.


Romina Ciuffa, 21 dicembre 2016

lunedì 12 dicembre 2016

MORRO DOS PRAZERES: I COLORI DELLA FAVELA CHE HA UCCISO UN VENETO

"Morro dos Prazeres" significa letteralmente "collina dei piaceri". È una piccola, spettacolare favela a sud di Rio de Janeiro che si staglia a 275 metri, vicino il quartiere bohémienne di Santa Teresa, e da essa è visibile tutta la Rio più nordica sebbene ancora meridionale, dal Pão de Azucar al Botafogo, una delle viste più intense della città carioca, la cidade maravilhosa. Prazeres conta meno di 700 residenti. Il suo nome è un tributo a Madre Maria dei Piaceri, che tenne una messa alla base della collina dove una volta era una cappella (oggi v'è un blocco di appartamenti). Il suo passato non è dorato: è stato un Quilombo, ossia un punto in cui gli schiavi si rintanavano nel XIX secolo.

Nel 2008 è stata il set del film Elite Squad, il famosissimo Tropa de Elite. Non è facile giungervi, ed è parte dell'unità di "Escondinho/Prazeres". Comunità "pacificata", la polizia vi è entrata e, "teoricamente", la favela è "tranquilla". Che la polizia entri in una favela e la pacifichi non vuol dire che la favela sia pacificata. Nella maggior parte dei casi, pacificação non è affatto sinonimo di pace, tutt'altro: i residenti si sentono più insicuri. Il BOPE (Batalhão de Operações Policiais Especiais, ovvero Battaglione per le operazioni speciali di polizia) tende a confrontarsi con i cittadini in maniera più dura, ed essi si sentono paradossalmente più protetti dai narcotrafficanti. I tiroteios (gli scontri a fuoco) restano, cambiano solo gli addendi: se prima erano tra narcotrafficanti, poi sono tra narco e polizia, e i residenti sono meno tutelati. Questa è vox populi. E il povo si lamenta perché se prima poteva tenere le porte aperte e nessuno avrebbe rubato né commesso crimini, con l'entrata del BOPE le cose cambiano e iniziano i furti e gli stupri, non più assiduamente controllati dai precedenti detentori del potere (molti dei quali in carcere, altri latitanti, altri ancora nella comunità).
Mi soffermo oggi sul Morro dos Prazeres, che conosco bene, e ne pubblico il mio reportage fotografico, a poche ore dal caso di cronaca nera verificatosi alle 11 ora locale dell'8 dicembre: due motociclisti italiani, durante un viaggio previsto di 35 mila chilometri, dopo una visita al Cristo Redentore sarebbero entrati per sbaglio nell'area e fucilati. Dal Morro il Cristo è ben visibile.


Ma non basta un occhio a Dio: il veneto Roberto Bardella, di Jesolo, è morto, raggiunto dai colpi alla testa e al braccio; suo cugino Rino Polato (di Fossalta di Piave) si è salvato (dichiara alla polizia locale: "Roberto mi faceva notare quanto fosse degradato l'ambiente circostante. Ci siamo resi conto di aver imboccato una strada sbagliata"). Vestiti da centauri, sono forse stati scambiati per poliziotti. "Avremmo fatto trecento metri, quando abbiamo visto quel gruppo di uomini, tutti molto giovani, che sbarrava la strada e puntava le armi. Ho sentito un colpo sul casco e ho visto cadere Roberto che stava davanti. Mi sono fermato. Sono stato bloccato, strattonato e poi buttato giù dalla moto". Poi, Polato è stato preso e tenuto per due ore in una vettura bianca, quindi rilasciato. Il suo telefono, scomparso, è stato poi ritrovato a pezzi. La Delegacia Especial de Apoio ao Turismo (Deat) lo ha accompagnato al Consolato italiano, e sabato 10 è rientrato in Italia. Solo.

Un incidente. Ma questo basti a confermare non la pericolosità del Brasile, quanto la pericolosità del turista. Rectius: la sua leggerezza. Non si creda - è un invito - che le palme bastino a rendere omaggio ad un Paese che resta emergente, sofferente, insoddisfatto, povero. I media hanno esaltato le Olimpiadi, i Mondiali, la Giornata dei Giovani e la presenza del Papa, le buone azioni del Governo, e mai hanno rivelato gli scandali effettivi che hanno distrutto intere comunità, l'aumento del costo della vita che ha reso impossibile la sopravvivenza di molti, l'esistenza di un grande, immenso, giro di spaccio nazionale ed internazionale. Non si può pensare al Brasile canticchiando Caetano Veloso, in un localetto fumante ascoltando un successo di Tom Jobim. Il Brasile non è bossanova. Il Brasile è questo: è il dolore di famiglie sfrattate, la scarsa educazione, l'analfabetizzazione. Quando per costo della vita si intende più il prezzo che vale una vita: ossia, nulla. Un iPhone, una motocicletta, ma anche solo una decina di reais. Non si visita una favela con leggerezza, non si cammina nelle spiagge di Jericoacoara di notte da sole, non si rischia la vita come l'hanno rischiata, e persa, gli ultimi italiani casi di cronaca nera più recenti. C'è sempre un errore alla base di tutto questo.


Ho vissuto nella favela della Rocinha e frequentato tutte le favelas di Rio de Janeiro. Sono stata sempre molto attenta e mi sono garantita protezione prima di tutto. Sono scampata a sparatorie e i colpi di fucile li ho visti passare sopra di me che correvo. La favela non è un Risiko, non è un gioco. Ma non lo è neanche Leblon, non lo è Ipanema, né Copacabana, che prolificano di ragazzini affamati di denaro. Bisogna, prima di affrontare un viaggio in Brasile, approntarsi una preparazione in sociologia, antropologia, psicologia, storia. Solo allora si potranno capire quelle che al turista medio sembrano le contraddizioni di un Paese, mentre a me sembrano solo elementi di coerenza. Sarebbe strano il contrario. Non si entra con una moto in una favela, regola numero uno. Salvo che non sia una moto della favela. Non si compra maconha (marijuana) nella favela, salvo che non si sia introdotti da un favelado di quella stessa favela. Non si passeggia allegramente in una favela con una macchina fotografica a lungo obiettivo, salvo che non si sia garantita protezione.

Il Morro dos Prazeres è una comunità colorata, ne danno conto le mie fotografie. Alzi gli occhi e vedi Cristo. Alcune case sono in vendita. L'atto di acquisto non è registrato nello Stato di Rio de Janeiro e non risulterà da nessuna parte, se non nel Registro della Favela. Smettetela di fare i gradassi: la favela non è un centro sociale. La favela è un luogo fatto di persone vere che soffrono fame e tubercolosi, che se è vero che non pagano la luce allo Stato perché hanno i gatos, i fili collegati in ogni punto dell'area che garantisce loro dell'autoconservazione, questo rientra nella sociologia del luogo. Cacciati dalla città, i poveracci si rifugiarono nei morros quando ancora la città non si era resa conto di quanto valessero quelle colline. Ora sono le più ambite dai grandi imprenditori, dali politici, dai ricchi. Il gap tra povertà e ricchezza è tra i più alti del mondo. Ogni singola comunità (favela) ha una vita a se stante, una storia a se stante, una genealogia a se stante. Sono attivi progetti e le comunità sono comunità di buoni. Non facciamoci influenzare dai media. Ma attenzione alla leggerezze.
Eccoli, i colori che ho visto nella collina dei piaceri, dove il pittore è Cristo: al link http://www.riomabrasil.com/morro-dos-prazeres/
(Romina Ciuffa) 


venerdì 9 dicembre 2016

QUOTE NERE PER RIABILITARE L'UOMO NERO

Proporrei delle «quote nere». La problematica dell’immigrazione, fuori dal discorso politico, è qualcosa che ci riguarda. Siamo a tutti gli effetti un Paese globalizzato, che non deve solamente fare i conti con il terrorismo e la manovalanza, gli immigrati che rubano e gli immigrati che rubano lavoro agli italiani. Dobbiamo riuscire anche noi a divenire un Paese mulatto. Checché Salvini ne dica, il mondo è fatto di diversità ed integrazione. Non possiamo azzerarci continuamente parlando di extracomunitari che uccidono, spacciano, rapinano. Un anti-luogo comune è quello che vede l’immigrato svolgere mansioni che l’italiano non considererebbe. Perché, allora, non educare gli extracomunitari con un programma di sostegno, richiamarli legalmente all’interno del nostro Paese con borse di studio, fornir loro una formazione adeguata ed un curriculum di rispetto perché possano prender parte alla vita del Paese?

I fiorentini, i genovesi, i milanesi, i romani, non hanno saputo far meglio. Perché non «obamizzare» anche l’Italia? Proprio oggi che in Occidente avanza la minaccia Trump-Salvini, sarebbe il caso di intervenire. Nessuna donna ha mai richiesto «quote rosa», bensì l’accettazione delle proprie competenze e la valutazione di intelligenze flessibili, multidimensionali, femminili. È stato loro assegnato il colore rosa come si assegna alle bambine e si pretende da queste, prima ancora che maturino una personalità propria, che si colorino di delicatezza e gonne. Nel corso della loro formazione hanno dimostrato parità quando non supremazia nelle posizioni rilevanti: è questa la modernità. Ora serve una politica per gli scafisti. Inutile bloccare gli accessi ed inutile dar modo ai media di coprire gli spazi vuoti con foto di barche affondate e bambini sanguinanti sulle spiagge di Lampedusa. Inutile bloccare la storia: essa si verifica. Ne è esempio l’Occidente più occidentale, quello americano, che ha dato mandato ad un afroamericano di governare per otto anni le sorti del Paese, e nulla si è potuto avverso l’integrazione. Lo stesso valga per la candidatura di Hillary Clinton: avrà pur vinto Donald, ma è innegabile quanto dalla caccia alle streghe sia stato fatto per trasformarle prima in fate, quindi in donne di comando.

Quote nere, ovvero la possibilità di assumere candidati provenienti dal fenomeno immigratorio e imparare dalle loro differenze, da prospettive che giungono da mondi lontani e possibili, sebbene poveri. Povertà non è sinonimo di terrorismo né di incompetenza, tutt’altro: dalla povertà nasce la forza più dirompente, in grado di superare gli ostacoli deteriori cui un miliardario come Lapo Elkann non è in grado di far fronte, riuscendo addirittura a simulare un rapimento per ottenere dalla famiglia una somma di (soli) 10 mila dollari. Questo dà ancor di più conto della necessità di introdurre nel sistema elementi nuovi, scindendoli dalle dinamiche della criminalità e della discriminazione, per creare opportunità di crescita nel Paese e al di fuori di esso. 

L’Italia non deve nulla all’immigrazione, a nessun cittadino «ariano» deve richiedersi di risolvere i problemi dell’extracomunitario, ma può di certo servirsi di nuove idee e valorizzare le differenze proprio come è avvenuto nel processo che ha reso la donna più uomo e le ha conferito posizioni prima d’ora inimmaginabili. Un istituto di formazione «nera» potrebbe creare un esercito di buona condotta ed esperienza pronto a lavorare in un Paese come il nostro che, in ogni caso, si trova a dover integrare immigrati senza cultura, proprietari di un background doloroso che li rende sofferenti e, dunque, pericolosi. Salvo prova contraria. Perché, allora, non prendere atto del fatto che, a fronte di una fuga di cervelli dall’Italia, ve n’è una altrettanto vigorosa che conduce all’Italia stessa i cittadini di Paesi limitrofi? Perché non creare un’alleanza con l’Uomo nero, che tanto ha terrorizzato generazioni i bambini di ieri per il sol fatto di essere un uomo diverso? 

Immagino una start up governata dall’Uomo nero, dal passato controverso e dalle origini guerrafondaie. Un uomo che, giunto in Italia, possa essere messo nella condizione di imparare ciò che il suo Paese non gli ha insegnato. Alfabetizzazione prima di tutto. Quindi scuola dell’obbligo e studi universitari, corsi di formazione e - un impegno - quello dell’accettazione dell’Altro, senza contestazione di credi ed orientamenti. A condizioni di reciprocità. Il problema non è quello del crocefisso in classe o dell’uso del burka: chi sceglie di entrare in un Paese ne segue le vicissitudini e vi si lega nel rispetto di una storia che non va mutata. Ma l’accoglienza dell’Uomo nero, affiancata da un’educazione civica e laica che lasci prevalere i valori sulle credenze e sulle prese di posizione, può cambiare il nostro mondo. Può cambiare finanche noi stessi. 

Non è forse vero che l’italiano si lamenta in continuazione dei suoi governanti, delle istituzioni, del vicino di casa? Non appartiene allora, tale atteggiamento, ad un’abitudine conclamata, quella volta all’insoddisfazione e alla eteropercezione del pericolo e della responsabilità? E i governanti, le istituzioni, il vicino di casa, non sono forse, nella proporzione più plausibile, italiani, bianchi, dialettali? Cosa c’è di sbagliato, dunque, a fare uno sforzo quasi extraterrestre - ossia uno sforzo che, pur dovendo impiegare centinaia di anni per giungere a compimento, richieda invece pochi lustri, un’età quasi astrale in un pianeta dove il tempo corre diversamente - e accettare l’Uomo nero proprio come si accetta il «colpo di Governo» di un fiorentino? Cosa distingue un fiorentino da un siriano: la sicurezza ch’egli non compia un attentato? Perché: non lo ha forse, in un certo qual senso, compiuto?

E perché non cominciare dai bambini? I quali sono aperti ad ogni forma di società e di apprendimento. Disfano questo processo di legittimazione delle diversità i genitori che in un Paese straniero, accogliente, pretendono di mantenere abitudini e credi dei propri universi di provenienza. Come se un asiatico volesse trasferirsi in Groenlandia mantenendo i vestiti tailandesi: in poco tempo, morirebbe di freddo. Prendiamone atto. Un valdostano non potrebbe trasferirsi a Rio de Janeiro indossando il consueto pellicciotto. Perché ciò non dovrebbe valere per la religione? Perché la coesistenza di razze deve seguire il destino dell’utopia? Perché non ipotizzare una struttura in grado di fare della diversità un valore aggiunto? In uno spazio-tempo in cui, attraverso i social network, la parola «amicizia» è divenuta un contenitore vuoto, quando nello stesso istante con un click si partecipa ai funerali di Fidel Castro, alla vittoria di Donald Trump e alla morte di un’intera squadra di calcio brasiliana a seguito di un disastro aereo, possiamo veramente continuare a credere che l’Uomo nero sia così cattivo? (Romina Ciuffa)

giovedì 1 dicembre 2016

LGBT: CARA CIRINNÀ, MA CHI "SÌ" CREDE DI ESSERE?

Ciò che innanzitutto colpisce di Monica Cirinnà, senatrice (per il momento) del Partito democratico, è il suo avvio cattolico in una famiglia di valori conservatori, tanto da frequentare una scuola di suore della Capitale. Suore che non sapevano che quella Monica avrebbe poi condotto la battaglia per le coppie omosessuali che, l’11 maggio 2016, sarebbe divenuta normativa attraverso il decreto legge che prende il suo nome, intitolato “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”, introducendo l’unione civile tra omosessuali quale specifica formazione sociale e la disciplina sulla convivenza di fatto sia gay che etero.

Già dai tempi delle suore la Cirinnà decise di trasferirsi al Liceo Classico "Tacito" di Roma, partecipando al movimento studentesco e, nel tempo, facendo proprie le istanze animaliste: dopo alcuni anni di collaborazione alla cattedra di Procedura Penale di Franco Cordero, è stata lei a fondare l'Arca, l'Associazione romana per la cura degli animali, "con l'obiettivo di prendersi cura delle colonie feline e dei gatti e di assistere i loro amici umani - a Roma detti gattari - in tutte le situazioni difficili", oltre ad aver combattuto per l'approvazione, poi avvenuta, di una legge che anche in Italia vietasse la soppressione di cani e gatti nei canili comunali (di questo periodo, e in veste di Verde, la nomina, ad opera del sindaco Francesco Rutelli, come consigliera delegata alle Politiche per i diritti degli animali e vicepresidente della Commissione Ambiente). Fin qui tutto bene. Tutto bene anche nella sua successiva nomina come presidente della Commissione delle Elette, legata ai problemi connessi ai diritti delle donne e alla valorizzazione della differenza di genere, e partecipando alla nascita della Casa Internazionale delle Donne, nel complesso monumentale del Buon Pastore di Trastevere a Roma. È suo il contributo per la trasformazione dello zoo di Roma in Bioparco, come quello per la creazione dell'oasi felina in luogo del vecchio canile di Porta Portese e per l'emanazione (reggente Walter Veltroni) del Regolamento capitolino per la tutela degli animali.

Icona gay, a questo punto. E se gli animali potessero parlare, probabilmente anche icona animale. Il popolo LGBT ha bisogno di punti di riferimento, ed è indubbio che il Partito democratico ha svolto, nella sua persona e - perché negarlo - in quella del precedente sindaco capitolino Ignazio Marino, nonché in altri sporadici personaggi, un lavoro ineccepibile, che ha portato l'Italia quasi ai livelli europei. Ora è possibile per gli omosessuali, nonché per i conviventi more uxorio, fare liste di "nozze", mutata mutandis liste di "unioni civili", nei negozi vicini al Campidoglio: al centro di Roma, insomma. E questo non è poco. Grati a quei "rivoluzionari" della sinistra che hanno lottato per avvicinare l'Italia all'Europa e al mondo anche dal punto di vista delle scelte sessuali e famigliari, andando oltre una Costituzione dalla lettura cattolica. Perché, vorrei ricordarlo, il nostro testo fondamentale all'art. 29 stabilisce, tra i principii fondamentali, il seguente dettato: 
  • La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.
  • Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare
Specifico: non v'è nessun riferimento alla religione. È riconosciuta una famiglia fondata sul matrimonio. Il punto qui è dare al matrimonio una definizione. Se in esso includiamo, infatti, la possibilità che esso si svolga tra persone appartenenti allo stesso sesso, allora la norma dell'art. 29 tutelerà anche questa tipologia matrimoniale e garantirà ai coniugi (a quel punto, sostantivo neutro) eguaglianza morale e giuridica. Il problema legato all'art. 29 Cost. è proprio quello del suo collocamento all'interno di un sistema più vasto che definisce la famiglia solo in un certo modo. Il merito della Cirinnà (leggasi: di tutti coloro che hanno partecipato alla proposta, discussione, emanazione del decreto portante il suo nome, ben lungi dall'essere una battaglia personale della senatrice come l'uomo di strada è portato a credere ma frutto di un'attività complessa e partecipata) è quello di aver dato al concetto di famiglia un'accezione più amplia, al concetto di matrimonio una interpretazione moderna. 

O preferisco dire antica, se è vero che sin dai Greci, dai Latini, dai nostri antenati più lontani, l'omosessualità era moderna, la vita eterosessuale era concepita nel senso di una vita riproduttiva e non era legata necessariamente al concetto di amore, giacché le coppie matrimoniali erano formate dai genitori alla nascita dei pargoli ed a questi imposte, e - è cosa nota - gli uomini erano tenuti a far pratica sessuale con i fanciulli per potersi far trovare pronti ad una vita sessuale. Ce ne parlano Erodoto, Senofonte, Platone, quanti altri, dei quali non possiamo solo prendere ciò che ci fa comodo: le Storie del primo; le pratiche di guerra del secondo; l'amor platonico, la giustizia, la teoria delle idee, la filosofia del terzo. Non possiamo soprassedere alla allor comune pederastia di cui essi ci rendono edotti (da non confondere con la "nostra" pedofilia, la pederastia assecondava una relazione stabilita tra una persona adulta e un adolescente al di fuori dell'ambito familiare, che prescindeva dal desiderio sessuale nei confronti di un impubere: il sessuologo Erwin J. Haeberle ne critica così l'uso "moderno, risultante da un fraintendimento del termine originale e dall'ignoranza nei riguardi delle sue più profonde implicazioni storiche"). Il ragazzo apprendeva virtù che avrebbero fatto di lui un uomo adulto durante un periodo di isolamento in cui avrebbe convissuto con un uomo, nella cui compagnia era introdotto alle regole della vita sociale: l'adulto sarebbe stato al tempo stesso maestro e amante. Antichità.

Tornando alle nostre modernità, e senza entrare nel merito della discussione, la Costituzione non definisce il sesso dei coniugi. Lo fa il Codice civile, ma esso è legge ordinaria, proprio come il decreto Cirinnà di pari livello, con le conseguenze che ne derivano e che saranno anche definite dalla giurisprudenza che produrremo (non mancheranno giudizi dinnanzi alla Corte costituzionale).

Fin qui tutto bene. Il problema non è nel precipitare, ma nell'atterrare.
Io capisco, e sono perfettamente consapevole, che l'impegno politico non è discutibile. Senatrice del PD, renziana, Cirinnà non può non appoggiare le scelte del suo Segretario. Il punto deteriore, a mio parere, è la strumentalizzazione. In campagna referendaria, fortunatamente volta al termine, tutto è concesso, ed è normale il suo appoggio al Sì. Ciò che mi permetto di non condividere, e che di fatto non condivido, è l'aver fatto dei LBGT un esercito per la riforma costituzionale. Lunghi post sui suoi canali di social network dando per scontato il voto della "sua" comunità-esercito per un Sì, anche strumentalizzando il "sì" matrimoniale in funzione della campagna renziana. Il motto "Basta un sì"si affianca in via strumentale all'immagine di una coppia omosessuale che ha potuto, grazie al Ddl Cirinnà, "dire sì": ma è un "sì, lo voglio". Voglio sposare la persona che amo.


Non è la stessa cosa. Il popolo LGBT deve poter votare sì o no formandosi una coscienza personale che prescinda dalla possibilità, attualmente concessagli, di fare pubblicazioni in Campidoglio. Non è la stessa cosa modificare drasticamente la Costituzione e, intanto, formarsi una famiglia. Sono due punti che vanno completamente scissi e ragionati in termini di riflessione personale. Non si può votare Sì perché Vladimir Luxuria voterà Sì, o perché la condottiera Cirinnà ha fatto proseliti. La legge che ella ha contribuito ad emanare (rectius decreto legge) è un atto di eguaglianza e di equità, l'applicazione pura e semplice del secondo comma dell'art. 3 del nostro testo costituzionale che impone alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che si frappongono al pragmatismo e alla concretezza di un'eguaglianza formalmente canonizzata nel primo comma (per questo i due dettati sono conosciuti come, il primo, principio di uguaglianza formale, il secondo, principio di uguaglianza sostanziale). In poche parole, un "atto dovuto" da un politico che sente il mondo.

Questa riforma non ha nulla a che vedere, direttamente o indirettamente, con la popolazione LGBT. Fare seguaci ed attirare masse gay e transgender verso il Sì renziano con la ridondanza del motto "Basta un Sì" impiegato per la legalizzazione delle coppie civili è una manovra politica di basso livello - sebbene di alto impatto, se è vero che la maggior parte di essi voterà proprio in senso positivo alla sostituzione costituzionale. Bisogna imparare a comprendere quando si è strumenti di un gioco più grande, più infido, più infimo, sottile, sbagliato. Negli Stati Uniti è in questo modo che ha vinto Donald Trump: manovrando il populismo, l'ignoranza, la necessità di essere rappresentati e di appoggiare chi sembra essere più simile. Ancora: l'impiego dei social network, l'appoggio dei media, l'importanza di chiamarsi Ernesto ed essere sposato con Ernesto2. Sentirsi rappresentati non comporta la condivisione sic et simpliciter delle idee del rappresentante, ci vuole riflessione reale: l'importanza di chiamarsi Onesto (è di Oscar Wilde stesso il doppio senso su "earnest", Ernesto ed onesto). La modifica della Costituzione non si gioca sull'orientamento sessuale. È umiliante vedere costruire, da parte del PD, truppe di omosessuali pronti a combattere per la causa partitodemocratica, solo perché la Cirinnà con la sua chioma bionda monta un cavallo bianco. 

Questa strumentalizzazione, cara Monica, la riporta a quel collegio di suore lontano nel tempo, dal quale lei scappò per studiare l'umanesimo al Tacito di Roma. Sa quando le suore usavano la religione per indicarle i passi da seguire? Ricorda i sensi di colpa che le muovevano? Sa dirmi quante volte si è chiesta, con fastidio, astio o almeno curiosità morbosa, perché esse vestissero tutte uguali e lasciassero da parte ogni istanza identitaria, ogni modalità di identificazione di se stesse rispetto alle altre, per seguire Dio? 
Monica, non è quello che sta facendo ora con la comunità LGBT? Vuole davvero strumentalizzare la religione dei diritti per rendere tutti i suoi proseliti identici, persone che vogliono sposarsi pure loro, che vogliono adottare figli pure loro, che vogliono farne pure loro, che vogliono usare bagni giustificati sul gender, senza attribuire ai medesimi una taratura di uomini e donne intelligenti, in grado di pensare, riflettere, scegliere a prescindere dal suo decreto legge; vuole di fatto lei stessa - una "paladina" - renderli tutti identificabili con un unico scopo: il suo? (Romina Ciuffa)